Esiste una fase, più o meno lunga, nella vita di una donna in cui essere in due basta. Si convive con la persona che consideriamo la metà mancante arrivata a completarci e con quella stessa persona al nostro fianco ci sentiamo intere. Poi, come un fulmine a ciel sereno, accade qualcosa. Scatta dentro di noi un meccanismo che dà origine ad un desiderio così potente da diventare presto necessità e – benché ancora non esista – entra a far parte della nostra vita una terza persona: nostro figlio. Presente ancora solo dentro ai nostri sogni quella piccola creatura comincia a prendere forma, ad occupare spazi non solo mentali. Da quel momento cominciare a cercare un figlio, o smettere di evitarlo, diventa la cosa più naturale del mondo e quello che succede dopo è noto alla maggior parte delle mamme. Ma cosa accade quando quel tanto desiderato e cercato figlio non arriva? Da questa scomoda domanda inizia la mia storia e da un trasferimento oltreoceano, anche.
Agosto rappresenta un mese invernale in Brasile, non dove abito io però – nello stato di Bahia – dove invece l’estate regna perenne. Io e mio marito eravamo appena rientrati da un soggiorno italiano, entusiasti di tornare nella nostra casa all’estero e finalmente pronti a creare una famiglia. Ricordo quel periodo con allegria. Era piacevole la spensieratezza con cui pensavamo di costruire il futuro, procreando come natura insegna. Ricordo i sintomi che mi facevano credere di essere incinta, gli stessi che dopo avrei scoperto essere immaginari e che mi avrebbero ferito per gli anni a seguire, ciclo dopo ciclo. Così arrivarono i primi test negativi, le preoccupazioni ed anche i primi controlli medici.
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Nel frattempo, seguendo un sogno che non sapevamo se si sarebbe mai realizzato ma che vivendo in Brasile sembrava molto più raggiungibile, avevamo cominciato a visitare una struttura che accoglie bambini con situazioni famigliari complicate e bambini che una famiglia invece non ce l’hanno. I risultati degli esami medici non tardarono ad arrivare, introducendo nella nostra vita una nuova e spaventosa realtà chiamata infertilità. Scoprire di non essere in grado di procreare naturalmente e quindi prendere in considerazione la possibilità di non diventare mai genitori equivale ad una perdita. In quel momento diciamo addio non solo ad un sogno, ma anche ad un bambino già vivo dentro di noi nonostante la sua assenza. Se ne va la felicità, la speranza e se ne vanno i progetti. Ricordo perfettamente la sensazione di vuoto, ricordo il buio e la paura. Ricordo anche la sensazione di freddo nonostante la temperatura tropicale.
Ci sono volute svariate settimane per accettare questa nuova terribile verità, ci sono state lacrime e parole arrabbiate che mi hanno portato a toccare il fondo prima di poter tornare a galla, ancora lontana dalla terra ferma ma in grado almeno di respirare. A quel punto reagire è diventata l’unica opzione e tra le varie possibilità, l’adozione è stata la più naturale per noi da seguire, il nostro piano A. Istintivamente abbiamo cominciato il nostro primo grande viaggio verso il figlio desiderato, un percorso privo di certezze e pieno di burocrazia. All’epoca fu un salto nel buio, l’adozione è una strada emozionante quanto difficile e l’attesa di una mamma adottiva non è sempre dolce, perché priva di riferimenti e corpi in cambiamento. Si aspetta senza date di scadenza, senza poter fare preparativi e senza alcuna certezza. Ma si aspetta anche con eccitazione e col cuore spalancato alla vita che il destino – o chi per lui – sceglierà per noi, pronti ad accogliere ed incontrare una vita lontana che diventerà tutt’uno con la nostra, un volto straniero nel quale riconoscerci.
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È l’amore più puro che si possa provare perché privo di vincoli, che va oltre la carne ed il sangue. Quel figlio tanto cercato noi però lo avevamo già incontrato ancor prima di poterlo chiamare nostro, le nostre anime si erano già scelte tra le quattro mura della casa-famiglia che continuavamo a frequentare e fu doloroso quando assistenti sociali e psicologa ci dissero che l’abbinamento nel suo caso era già avvenuto e che la famiglia scelta non eravamo noi. Quella sofferenza nel vedere infrangersi l’ennesimo sogno e l’ennesimo pezzo di cuore, ha reso ancora più incredibile la nostra storia. Non furono le contrazioni ad annunciarci che saremo diventati genitori, chi adotta aspetta una chiamata e la nostra fu particolarmente sorprendente, perché quel bellissimo bambino dalla pelle color cioccolata che avevamo visto e da subito riconosciuto oggi ha cinque anni e mi chiama mamma. È in questo modo che è arrivato a casa mio figlio Noah Enzo, inaspettatamente e con soli tre giorni di preavviso, per cominciare una bellissima vita a tre. Un anno e mezzo dopo quella indimenticabile telefonata che ci annunciava di essere diventati genitori, eravamo pronti per ingrandire ulteriormente la nostra famiglia. Questa volta però, alla voglia di diventare per la seconda volta mamma, si univa il desiderio di rimanere incinta per la prima. Appagata completamente in qualità di madre ma con un desiderio ancora forte dentro al cuore in qualità di donna.
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Era da poco terminata l’alta stagione brasiliana, quella in cui lavoriamo di più, quando abbiamo cominciato il nostro primo tentativo di procreazione medicalmente assistita (PMA). Siamo partiti ancora una volta per una grande avventura, diversa dalla precedente e certamente più invasiva fisicamente ma che ci avrebbe portati ad un medesimo traguardo. O almeno così speravamo. La stimolazione ovarica, il prelievo degli ovociti (pick up), il trasferimento degli embrioni in utero (transfer) ed infine – undici giorni dopo il trasferimento – il test di gravidanza. Positivo, con nostra enorme sorpresa. Rimanere incinta al primo tentativo è una grande fortuna, lo sanno bene i dottori, le donne che ci sono passate e soprattutto quelle che non hanno avuto la stessa sorte. Ero incinta, dentro di me c’era vita ed in punta di piedi cominciavo la mia prima gravidanza. La paura cominciò con la crescita ballerina delle Beta HCG, ma le ecografie che seguirono confermavano l’esistenza di un feto dentro il mio utero e la presenza di una vita che ha lottato con tutte le sue forze fino all’ottava settimana circa – benché io l’abbia scoperto solo all’undicesima – prima di lasciarci per sempre. Avevo già conosciuto il dolore della perdita di un genitore, ma non ancora quella di un figlio e sebbene i medici definiscano quella vita appena di feto, ai miei occhi quella era già mia figlia. Femmina, è così che l’ho sempre immaginata senza poterne avere certezza. Riesco ancora a sentirlo il dolore che seguì quel giorno e c’è voluto un altro anno e mezzo prima di trovare il coraggio di ricominciare tutto daccapo. Stessa clinica nella città di San Paolo, stesso dottore, stessa procedura fatta eccezione per dosaggi modificati e l’aggiunta di alcuni farmaci. Ad un mese circa dall’inizio, di nuovo il test di gravidanza e di nuovo un positivo. Questa volta l’ormone HCG è cresciuto in maniera impeccabile però, raddoppiando ogni due giorni come da copione. Lo stesso ha fatto l’embrione dei due trasferiti in utero che ha deciso di rimanere con noi e che oggi è una bambina di sei mesi che porta il nome di Nina Flor. Il mio bellissimo fiore sbocciato in un terreno arido, arrivato per rendere ancora più rigoglioso e colorato il nostro giardino. Un piccolo angolo di paradiso che io chiamo famiglia.
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Oggi continuo a vivere in Brasile, ai piedi di un oceano mite e quasi sempre caldo. È una vita diversa ed io non lo so se esiste una vita perfetta, ma so che questa è certamente quella più adatta a me. Con accanto l’uomo che amo, l’unico col quale avrei potuto condividere queste esperienze e due figli desiderati, voluti, cercati e amati profondamente. Due figli arrivati da due strade diverse, entrambi più forti di un destino che non li aveva previsti e che adesso li vede insieme. Loro, il frutto della mia passion.
 
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