Nei 9 mesi in cui abbiamo atteso la nascita del nostro primo figlio, l’idea che potesse essere malato non aveva ci mai nemmeno lontanamente interessato. La mia è sempre stata una gravidanza da manuale, io giovane e sana, tutte le ecografie sono sempre state perfette. Il pensiero dell’ipotesi di avere un figlio malato ci aveva certamente sfiorato, ma sempre a livello teorico, come a dire “E se il nostro bimbo fosse malato?” e serenamente ci siamo sempre detti che gli avremmo voluto bene ad ogni modo. Ma dirlo è una cosa, viverlo è un’altra.

Nessuno ti prepara alla sofferenza, come potrebbe?

Il 3 ottobre 2016 nasceva nostro figlio Michele, 3.610 kg di pura gioia. Un bimbo sano, bello e forte. Solo due giorni dopo, la sera prima che fossimo dimessi, ci siamo accorti che c’era qualcosa che non andava: attaccato al seno,

Michele ha cominciato a tossire e respirare affannosamente, fino a diventare blu in viso. È stato subito trasferito nel reparto di Terapia Intensiva Neonatale per degli accertamenti. E noi genitori, del tutto digiuni di ospedali e ricoveri, abbiamo fatto il nostro primo incontro con il mondo della TIN, un mondo fatto di luci soffuse e suoni ovattati, rotti dai sistematici e ripetitivi suoni delle macchine. Oltre al personale medico e ai piccoli pazienti, l’ingresso al reparto è consentito ai soli genitori, che prima di superare l’ingresso devono seguire tutte quelle procedure igieniche per noi viste soltanto nei film, lavare accuratamente mani e braccia e munirsi di camice. Per quasi un mese e mezzo io e mio marito abbiamo varcato la porta di quel reparto, prima di un ospedale poi di un altro, per stare accanto a nostro figlio, impotenti, pregando giorno dopo giorno che la sua sofferenza si alleviasse, si risolvesse, desiderando con tutto il cuore di prendercela noi al posto suo.

La diagnosi della sua malattia ci venne data 2 settimane dopo il suo ricovero: fistola tracheo-esofagea senza atresia dell’esofago. In breve, si tratta di una malattia rara per cui tra trachea ed esofago è presente un piccolissimo collegamento che fa sì che tutto ciò che si deglutisce finisce nei polmoni. Se non operata, non lascia possibilità di sopravvivenza. Michele è stato operato alla Clinica Mangiagalli di Milano il 26 ottobre 2016. Una operazione durata 7 ore, un post operatorio di due settimane decisivo quanto l’intervento stesso. E infine, l’11 novembre 2016 Michele lasciava la Terapia Intensiva e tornava a casa.

Quello che vorrei raccontare è certamente della fatica di quelle settimane, ma anche dell’inaspettato bene che abbiamo vissuto, tanto da farci ripensare oggi al quel periodo con una inspiegabile gratitudine, e non angoscia. La fatica era tanta. Entrare ogni giorno in quel reparto significava essere sempre presi da una stanchezza mai provata, con le lacrime sempre pronte, combattuti quotidianamente tra il desiderio di stare accanto a nostro figlio e il non volere più entrare in quel reparto, non sentire più i suoi suoni e i suoi odori. Convivevamo con il senso di impotenza, ci sentivamo quasi in colpa perché volevamo fare qualcosa di più ma non potevamo. Potevamo solo stare lì, in attesa, accanto al nostro piccolissimo bimbo sommerso dai cavi che lo monitoravano e nutrivano. Eppure, in fondo, eravamo sereni. Penso che il segreto di quella inspiegabile lietezza che ci trovavamo addosso fosse proprio racchiusa in quello “stare”. Noi, figli di un mondo che corre, che ti dice che vali solo in proporzione a quanto fai, a quanto produci, non potevamo fare altro che stare lì fermi, seduti. Ci era chiesto solo questo. L’essenziale era tutto lì: nostro figlio combatteva, e noi stavamo. E come conseguenza di questa accettazione sono successe un sacco di cose. Innanzitutto, l’amore tra me e mio marito che cresceva di giorno in giorno è stato il dono più prezioso

Ci siamo trovati più uniti che mai di fronte alla sofferenza di nostro figlio.

Sono stati fondamentali gli aiuti delle nostre famiglie e di tanti, tantissimi amici che ci hanno accompagnato ognuno a modo suo. C’era chi andava a casa nostra a tenerla in ordine al posto nostro, chi ci faceva trovare un pasto caldo al nostro rientro a casa in tarda serata, chi passava in ospedale per una pausa caffè, chi veniva a trovarci a pranzo. Non c’era giorno che passasse senza che ricevessimo messaggi di conforto. Se possiamo oggi pensare a quel mese e mezzo senza che a prevalere sia l’angoscia ma la gratitudine, è proprio per questa grande compagnia che abbiamo avuto la grazia di incontrare.

È grazie a questa fatica che abbiamo cominciato a intuire una cosa: quando si smette di pensare che la nostra vita va bene solo quando procede come l’abbiamo in mente noi, e decidiamo di stare alle cose così come sono, è allora che possiamo godercela veramente, andando incontro a meraviglie che nemmeno immaginiamo

Margherita Malaspina

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