I-DAWW

No, non è una password segreta, ma il codice di registrazione di un vecchio McDonnel Douglas MD-82 del 1985 che nove anni fa fu galeotto e fece incontrare per la prima volta me e quello che sarebbe diventato mio marito.

Ma partiamo dall’inizio.

Uscivo dalla storia d’amore più straziante di sempre.

Non parlo di uomini, ma quella tra me e la ormai ex compagnia di bandiera che nel 2008 decise di mettersi la ‘cordata’ al collo e suicidarsi e con lei migliaia di lavoratori trai i quali io, assistente di volo stagionale, perdutamente innamorata di quello che era il mio lavoro. Ma le bollette e gli affitti vanno pagati e, seppur di mala voglia, cominciai a lavorare per una piccola compagnia aerea italiana, la ItAli Airlines.

Quello che non sapevo è che avrei passato i due anni più belli che un’assisente di volo potrebbe desiderare. Non avevamo rotte paradisiache, niente soste di una settimana alle Maldive, niente voli nella mia amata New York.

Ho conosciuto persone meravigliose, colleghi che sono diventati più che amici, ho passato giornate di lavoro distruttive ma indimenticabili, risate a non finire e divertimenti. Avevo trovato una vera e propria famiglia.

E poi ho conosciuto lui, mio marito.

Quella sera di inizio estate ero di servizio nella mia ultima tratta della giornata, una Roma Brescia. L’imbarco era ormai completato e stavo sistemando le ultime cose prima del decollo. All’ultimo minuto sale un equipaggio must go, ovvero in fuori servizio, che doveva essere riposizionato in base. È buona consuetudine in aviazione salutare e presentarsi al crew in servizio, cosa che in effetti fecero tutti. Tutti tranne lui.

Già mi stava antipatico. L’avevo visto solo di spalle mentre raggiungeva la coda dell’aereo e l’avevo identificato come il solito pilotino spocchioso mezza striscetta (in riferimento alle strisce che identificano i gradi sulla giacca dei piloti).

Non lo vidi più per tutto il volo, essendo impegnata nel servizio nella parte anteriore dell’aereo. Atterrati all’areoporto di Brescia e sbarcati i passeggeri, ecco arrivare l’equipaggio fuori servizio. E lui. Sorriso, mano tesa verso di me e scusa pronta: eri di spalle e parlavi con la collega non ti volevo disturbare, comunque piacere, sono Enrico.

Ok, quasi perdonato, ma ancora non ti ho inquadrato.

Come capita spesso tra gli equipaggi ben affiatati, si usa andare a mangiare insieme finito il turno e così è stata anche quella volta, solo che insieme al mio crew decisero di fermarsi a cena anche i colleghi fuori servizio. E così quella sera mandai un messaggio alla mia coinquilina dicendo che sarei tornata alle 22, ma in realtà non varcai la porta di casa fino alle 3 e mezza di notte.

Ci fu la cena, ci fu un dopo cena, ci furono risate, battutine, sorrisi e tutto quel gioco di sguardi del tipo: ok, sei caruccio ma non ci contare. Io sono arrabbiata con il mondo e me la tiro pure, quindi aria!

Quella notte mi accompagnò al parcheggio a riprendere la macchina. Non mi chiese il numero di telefono ma (ottima, ottima mossa) mi diede il suo, dicendo che essendo nuova in compagnia, per qualsiasi esigenza o se avevo solo voglia di uscire, avrei potuto chiamarlo.

Il mio numero gli arrivò qualche ora dopo, e da lì ci fu uno scambio assiduo di messaggi, di telefonate, poi i primi appuntamenti, un bacio, una casa insieme, una proposta di matrimonio e due figli.

Facile no? Sì e no.

In questi anni abbiamo cambiato molte case, molte città, molte compagnie aeree. Non abbiamo più lavorato insieme perché due anni dopo sono rientrata in quella che era un’Alitalia rinnovata che però continuava ad arrancare e mi costrinse a cambiare lavoro e di nuovo città. Abbiamo passato molto, moltissimo tempo divisi, lavorando in città diverse e incontrandoci due volte al mese negli alberghi dove sostavamo, come amanti clandestini.

Ne abbiamo davvero passate tante e senza sapere come ci siamo ritrovati a Hong Kong, dove è nato il nostro secondo bambino e dove abbiamo iniziato da capo lasciandoci alle spalle la crisi nera dell’aviazione civile italiana.

Lui continua a volare, io ho smesso ma continuo ad indossare le ali mentre lo guardo andare via in divisa, trascinando la sua pilotina, e già so tutto quello che farà: dai documenti, al briefing, al giro esterno, al decollo.

Perché siamo persone diverse con molti interessi simili e passioni separate.

Tranne una.

Quella che ci ha fatto conoscere e che mi permette di passare il giorno di Natale da sola con i bambini senza provare rancore, di festeggiare i compleanni una settimana dopo e di non sapere quando la sua chiave girerà nella toppa.

Perché la vita del navigante è così, dipende dal vento. E la famiglia è il porto sicuro dove tornare.

 

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